Lunedì, 26 Marzo 2018
#LE PIETRE
(racconto breve)
Questo racconto non è autobiografico, i protagonisti non sono persone reali né esistenti né mai esistite. Di sicuro ho attinto alla mia personale esperienza ma ogni coincidenza è da considerarsi del tutto casuale. Tranne quando non sia apertamente voluta.
A Stephen King che mi ha aiutato ad affrontare i miei demoni.
All’amicizia.
A mio fratello Manilo e a Leo.
PRIMA PARTE
Maggio, giornata calda di una primavera precocemente estiva, una leggera brezza viene dal mare e porta l’odore denso delle alghe sbattute sulla battigia. Fuori dalla finestra dell’aula si percepisce il ribollire delle onde che si infrangono sulla spiaggia sabbiosa. Tutto quello che le divide dalla scuola è qualche metro di sabbia, un parapetto in mattoni cementati, una strada e un marciapiede. Poi l’edificio scolastico.
Giornata di interrogazioni, Stefano era pronto ad andare di sua volontà e per questo motivo si era preparato con molta cura, ci teneva a fare bella figura e se possibile avere anche un bel voto, un bel regalo di compleanno per sua madre che proprio quel giorno compiva gli anni.
«Qualcuno che si offra volontario oggi?» il maestro Giorgio Amore guarda con un ghigno appena celato dietro i folti baffi verso la classe.
Tutti a guardarsi le scarpe, i bottoncini del grembiule, la punta della penna.
Poi, una mano si leva dalla seconda fila. Un ragazzetto occhialuto, magro, capelli corvini quasi slogandosi una spalla sembra indicare il cielo.
«Stefano!» il maestro si ripulisce sotto la cattedra il dito indice appena tolto dalla narice sinistra. «Stefano, non è che tu ne abbia proprio bisogno, vorresti avere otto in pagella anziché sette?»
«S-ssss-se f-fosse p-p-possibile, s-s-sì!» il voltò gli si imporporò sia per lo sforzo sia per il timore, quasi terrore che gli incuteva il maestro Amore. Anzi il “professore Amore”. Anche se insegnava in una terza, quarta e quinta elementare lui voleva essere chiamato “professore” e non “maestro”.
Il professore, ci adeguiamo in questa breve storia all’appellativo da lui richiesto, non aveva proprio voglia di interrogare Stefano quel giorno, sapeva al cento per cento che era preparato e sapeva che sarebbe stata una fatica immane ascoltarlo per via di quel dannatissimo tartagliamento che lo caratterizzava. E, inoltre, non aveva proprio voglia di dargli un otto visto che quel voto l’aveva promesso a Claudia Scurdati la cui madre era stata così carina a portargli per tutto l’anno ortaggi e frutta. Tanto è vero che un po’ di roba l’aveva dovuta regalare anche a sua sorella che peraltro l’aveva molto gradita. Certo non poteva far torto alla signora Scurdati di due otto in geografia nella stessa classe. In effetti, ripensandoci, la madre di Stefano Palmeri non gli aveva regalato un bel niente con la scusa che suo figlio andava benino pur avendogli chiesto se per caso il marito che navigava all’estero non avesse per caso trovato un bell’accendino a Singapore. Certo Stefano studiava, si impegnava e non era il peggiore della classe, ma vogliamo mettere tutta la fatica che gli costava ogni sua interrogazione?
«Palmeri vieni qua vicino alla cattedra.»
Stefano si alzò, allontanò pian pianino la seggiola per non far tropo rumore, si distese in due rapidi movimenti il grembiule e rischio di cadere a faccia in giù inciampando in una delle stringhe della sua cartella che nel frattempo Lorenzo Cannata aveva spostato. Risate generali.
«Basta adesso! Il primo che ride ancora gli metto due in condotta!» urlò il professor Amore, lui per primo era riuscito a stento a reprimere una risata.
Stefano nel frattempo aveva guadagnato la posizione a sinistra del maestro, di fronte a lui l’ampia finestra col panorama marino.
«Dimmi i capoluoghi regionale siciliano e i capoluoghi di provincia.» estrasse un fazzoletto vi soffio potentemente, guardò compiaciuto la materia risultante da quell’operazione e se lo rimise in tasca.
«Dunque il ca-ca-ca…» risatine di sottofondo.
«Capoluogo, su avanti Stefano!» il professore Amore era paziente come un affamato davanti a una tavola imbandita.
«Si pro-pro-fe-s-s-ore, il ca-ca-poluogho re-gi-gi-onale si-si-si-ciliano è Pa-pa-pa-p…» risate a stento trattenute con le mani davanti alla bocca dai suoi compagni.
«Pa-pa-lermo!»
«Bravo! Giusto. E i capoluoghi provinciali? Partendo dalla nostra provincia?»
«L-la-la-la…»
«Si trullallero trullalà» fece eco Lorenzo Cannata ridendo fragorosamente e mostrando una bocca con qualche dente storto.
«LORENZOOOO!!!» il nostro professore se c’era una cosa che sopportava meno del tartagliamento di Stefano erano le battute di Lorenzo Cannata ragazzo tanto spiritoso quanto poco incline ad impegnarsi in qualcosa di diverso dal raccontare barzellette sconce. Quel ragazzo stava ai libri come i cavoli a merenda. Dovette sforzarsi proprio per non ridere appresso a lui!
«Scusi professore!» fece lui sbiancando in volto dopo l’urlo del maestro con fare fintamente imbarazzato.
«Dunque Stefano, dicevi?» ritirò fuori il fazzoletto di prima asciugandosi la fronte.
Stefano a quel punto sapeva che doveva ricorrere ai suoi soliti trucchi per cercare di dire qualcosa di intellegibile e in tempi che il suo professore Amore poteva ritenere accettabili. Doveva prima di tutto evitare come la peste che all’inizio della frase da pronunciare vi fossero certe sillabe come “La” o “Ca” o “Pa”.
«Ragu-s-s-a è il nostro ca-ca-po-po-poluogo.»
«Bravo, adesso dimmi tutti gli altri nell’ordine che vuoi tu”.
Stefano, attese, cerco di concentrare le sue forze e soprattutto guardò negli occhi Caterina Laguardia che lo stava guardando tremante e ansiosa dal folto dei suoi nerissimi riccioli. Sapeva che gliela poteva fare se si estraniava da quell’aula se solo non pensava al professore Amore a quello stronzo di Lorenzo e si concentrata solo su Caterina sui suoi begli occhi neri, i suoi capelli ricci, il suo sorriso e alla passeggiata lungo la spiaggia che facevano quasi ogni giorno ritornando a casa da scuola.
«Stefano, non le sai?»
«S-s-si pro-pro-fes-s-sore l-le s-so»
«E allora concentrati e dimmele!»
«Ragusa, Siracusa, Catania, Messina, Enna, Agrigento, Trapani, Palermo»
Nell’aula vi fu un attimo di incredulo silenzio, il professore Amore lo guardava a bocca spalancata, prima che Caterina vincendo la sua grande timidezza applaudisse: «Bravo Stefano, bravissimo!!!», pochi istanti e a quell’applauso si unirono tutti gli altri compagni di classe eccetto Lorenzo che faceva finta di scarabocchiare sul quaderno. Stefano dal canto suo era orgoglioso e felice dell’approvazione di Caterina.
«Ragazzi basta!!! Non siamo allo stadio, è così strano che Stefano conosca i capoluoghi di provincia siciliani?»
Caterina alzò la mano.
«Cosa c’è adesso?»
«Vo-volevo dire che ho…abbiamo, applaudito perché Stefano ha detto tutti quei nomi senza balbettare per niente, a parte che li sapeva tutti.»
«Ohhhh ha parlato miss amorino-cuoricino-smack.smack!» bisbigliò Lorenzo provocando un mormorio ridanciano che rimbombò nella grande aula. Il professor Amore preferì sorvolare sulle solite scemenze di Lorenzo anche se le aveva sentite benissimo e già stanco di quell’interrogazione, del tartagliamento e di quello spiritosone, non rispose nemmeno a Caterina e mandò a posto un raggiante Stefano. Certo non gli avrebbe messo otto. La signora Scurdati poteva stare tranquilla e magari portargli un po’ di zucchine palermitane con cui sua moglie Andreina, sposata in seconde nozze, era tanto brava a fargli la pasta.
Stefano sedendosi in seconda fila al suo posto accanto a Caterina, ancora congestionato in volto e con le ascelle infracidate le fece un sorriso. «Gr-grazie Ca-ca-terina».
A Caterina a cui veniva la pelle d’oca quando Stefano tartagliava sul suo nome, sempre poi sulla prima sillaba, come al solito non disse nulla, aggrottò solo un po’ fronte e spalancò gli occhi. «Ma sei stato veramente bravo!»
«S-s-solo pe-pe-perché pe-per una v-v-olta non ho ta-ta-tartagliato?» disse lui ravviandosi un ciuffo inesistente.
Caterina ci pensò un momento.
«No, anche, soprattutto, perché hai saputo dire tutti quei nomi in fila, io non li avrei saputi dire così bene e veloce come te!»
Era una palese bugia, ma a Stefano non interessava. Caterina avrebbe potuto anche insultarlo e prenderlo in giro o schiaffeggiarlo a lui importava solo dei suoi riccioli neri e del suo sorriso.
FINE PRIMA PARTE
SECONDA PARTE
Il calore che proveniva dall’asfalto bollente trapassava la sottile suola di gomma delle infradito di Caterina. Sudava da ogni poro ma nemmeno sotto tortura avrebbe ammesso che stava sentendo caldo. Lei era in “missione” e non poteva certo deludere Stefano, mai e poi mai lo avrebbe deluso.
In effetti l’idea di perlustrare le strade di Prozzoli, a Luglio e nei pomeriggi in cui l’unica cosa che si riusciva a fare era quella di starsene sdraiati sperando nel refrigerio di qualche ventilatore le sembrava proprio una cosa da pazzi furiosi. Lei avrebbe comunque fatto tutto quello che Stefano le aveva chiesto costasse quello che costasse avrebbe ripagato la sua fiducia.
Aveva un blocco notes e una matita in cui doveva appuntarsi i numeri di targa delle automobili sospette, e fin qui lei lo aveva seguito. Poi quando però gli aveva chiesto come facesse a riconoscere le macchine sospette lui le aveva risposto guardandola fissa negli occhi:
«Te ne accorgerai su-su-bi-bito ap-pe-pe-na le vedrai!»
E lei era rimasta soddisfattissima da quella risposta. Solo che adesso non si accorgeva proprio di un bel niente! A parte che di macchine ne passavano veramente poche e poi stava solo cercando di capire se l’ambulante che vendeva “Geeeeelaaaaaatiiiiiii, granitaaaaaaaa di limoneeeeeeeee” fosse in vista, doveva rinfrescarsi la bocca altrimenti sarebbe impazzita. Cercando di camminare dal lato della strada non assolato e grattandosi in testa dove il cerchietto le fermava i riccioli si guardava intorno sconsolata.
«BEEEEEEELLA SIGNORIIIIIIINA!» le urlò qualcuno da dietro. Girandosi di scatto vide Lorenzo Cannata in groppa alla sua graziella bici semidistrutta e arrugginita.
«Sei proprio un imbecille Lorenzo, mi hai fatto prendere un colpo!» gli disse tenendosi i fianchi con le due mani.
«Ero qui pronto io a soccorrerti in caso…» e sguainò un orribile sorriso a denti storti.«…cosa fai qui sola soletta?»
«Sono in missione e non sono affari tuoi?» fece lei alzando il faccino e socchiudendo gli occhi.
«Missione? Caspita vuol dire missione?» domandò lui scendendo dalla bici e avvicinandosi a piccoli passi a lei.
«Ascolta Lorenzo lasciaci giocare in pace, vattene dai tuoi amici che questa è la nostra zona.»
Intanto con un gran frastuono provocato da ben due carte da gioco che sfregavano nei raggi delle ruote stava arrivando Stefano insieme ad altri due tutti in bicicletta.
«Ecco i rinforzi…ciao bella!» Lorenzo rinforcò la bici e si dileguò velocemente.
«Caterina che è su-su-cesso? Ti sssss-stava infastidendo quel cre-cre-tino?» le chiese preoccupato.
«No, no, sai com’è vuol sempre sapere quello che facciamo…»
«S-si pe-pe-per po-poi co-co-piarlo! Co-co-munque p-pe-er oggi ronda fi-fi-nita…domani Caterina vieni a mare con me?»
«Puoi contarci! Adesso però andiamo a prenderci offrimi una granita sto morendo di caldo e di sete!»
***
(16 Luglio 2017 - Teoricamente il racconto sarebbe da finire.)